Page 9 - zu sarino 1996
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spalle una vita di insuccessi commerciali e
di esistenza marginale: vita di borgata,'
scolarità di primo livello, navigazione nella
sopravvivenza. Era così il saccense Filippo
Bentivegna, scultore irregolare, amante
delle teste e dei simboli fallici, ritenuto in
paese niente più che un originale
estremista, un diseredato un po' folle. È
stato così anche Sarino Santamaria, una
creatura del desiderio puro, uno che nulla
sapeva dei problemi e degli artifici della
comunicazione, assolutamente estraneo ai
circuiti ufficiali e alle lusinghe intellettuali.
Per lui, come per Sabo e Bentivegna, l'arte
era un problema privato, di pura
espressione, di surplus di energia e di
sogno. Per lui l'arte aveva una funzione
eminentemente autoremunerativa,
senz' altro fine se non il piacere che se ne
può cavare. Piacere e sfida: per vedere se si
è capaci, se si riesce ad andare fino in
fondo e dominare la materia. Perché che si
tratti di un artista irregolare o di uno
regolare e magari famosissimo, le cose non
cambiano: c'è sempre nell'arte la sfida a se
stessi e l'affidamento alle proprie (deboli)
virtù. Come dimostra la scritta che
Hermenegildo Bustos, uno sconosciuto
pittore indio messicano dell'Ottocento, una
sorta di genio di periferia, ha posto sul retro

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