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quel contatto fugace che trovava la sua sintesi nella mattanza, la fase finale
della pesca quando si contavano i tonni catturati e si facevano i conti della
stagione di pesca.
In questo ruolo il rais rispondeva del suo operato soltanto al padrone,
l’imprenditore che impegnava grossi capitali per un’avventura che poteva
anche segnarne la rovina. Questa condizione, privilegiata per certi versi ma
carica di responsabilità che non potevano essere divise con altri (il suo vice –
sottorais – non aveva alcun rapporto col padrone, se non a volte di conoscenza,
non certo di fiducia qual era quello che legava i due numeri 1 della tonnara),
imponeva che il solo rais avesse la piena “conoscenza” della cose di tonnara;
non il “sapere”, ché questo è stato spesso condiviso con altri tonnaroti bravi ed
esperti, a volte in grado di assumere essi stessi il ruolo di rais (è più volte
accaduto che un capobarca, o sottorais, venisse chiamato in altre tonnare a
dirigere la pesca). La “conoscenza” in questo caso si riferisce principalmente
alla consistenza dei tonni catturati fra le reti, in attesa di fare mattanza;
nessuno all’infuori del rais doveva avere contezza del numero dei pesci ristretti
nelle “camere” della tonnara, solo lui poteva anticipare al padrone la ricchezza
di una mattanza, o tacergli la delusione per il mancato arrivo dei pesci tanto
attesi. Sconfitte e vittorie gli appartenevano. Un errato calo delle reti era
facilmente interpretabile anche dai tonnaroti più esperti, ma il numero dei
tonni rinchiusi erano il suo segreto più intimo, e nemmeno al padrone diceva la
verità, perché una delusione al momento di contare i pesci sul vascello lo
avrebbe mortificato, e così quando era tempo di mattanza e si doveva preparare
il ghiaccio per proteggere la tunnina dal sole si teneva una “riservata”,
comunicava trenta – quaranta pesci in meno di quelli ipotizzati, lasciando la
sperata sorpresa al conto finale quando i pesci venivano portati allo
stabilimento e affidati agli “scugghiatori” (tagliatori).
Il problema era di avere un’idea abbastanza precisa del numero dei tonni
rinchiusi nella rete, e non era questione da poco. Tralasciamo il “perito spiator
di tonni” che dall’alto di una rupe avvistava i tonni entrare nel golfo e dava
l’ordine ai compagni di cingerli con una rete trascinata dalle barche di cui parla
Oppiano di Cilicia (sistema usato nei secoli, ancora negli anni ’50 del 1900 nel
golfo di Trieste); all’inizio della campagna di pesca, verso la fine di aprile, i tonni
nuotano rasente al fondo, e anche quando le reti venivano calate nei pressi
della costa su fondali non altissimi era difficile scorgerli; diverse tonnare,
peraltro, già nei secoli scorsi venivano calate su fondali di 40, 50, anche 70
metri, dove l’occhio dell’uomo non può arrivare. Per secoli i tonnaroti hanno
messo in atto trucchi ed espedienti per indovinare l’arrivo dei tonni fra le reti,
dall’aspersione di gocce d’olio sulla superficie del mare per renderlo
fugacemente calmo e trasparente, all’impiego di sottili lenze calate sul percorso
sottomarino invisibile per “sentire” il contatto col corpo del pesce, agli “specchi
d’acqua” cilindri di rame col fondo di vetro che negli ultimi decenni