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            pitiatrici, cianciulini), lamentatrici retribuite le cui prestazioni segnalavano anche il
            prestigio del defunto (cfr. Salomone Marino 1886). Più usualmente erano soprattutto
            mogli, madri, sorelle, talvolta coadiuvate da amiche e vicine, a mettere in forma il
            dolore radicale della morte attraverso la melodia e il gesto. A dispetto delle proibizioni
            sinodali reiterate fin dal Medioevo, tuttora alcune donne anziane li ripetono nel riserbo
            delle proprie abitazioni oppure presso le sepolture dei propri cari nei momenti in cui
            i cimiteri sono meno frequentati.
               La lamentazione funebre assume secondo i luoghi denominazioni diverse: nel Pa-
            lermitano e nel Trapanese prevalgono i termini rrièpitu e arripitiatina (dal lat. reputare,
            ‘ripensare’, per estensione ‘rievocare’) e l’atto del lamentare è detto rripitiari o arri-
            pitiari; nell’Agrigentino insieme a rrièpitu troviamo strèpitu (strepito) e stripitiari;
            l’espressione chiantu (o ciantu) ri muortu (pianto di morto), e conseguentemente
            chiànciri (o ciànciri), è diffusa in un vasto territorio che va dall’area interna (Ennese
            e Nisseno) fino al Ragusano e al Siracusano; nel Messinese il termine dominante è
            trìulu (tribolo) e triulari è detta la pratica relativa; nel Catanese abbiamo rriòrditu (ri-
            cordo) e quindi rriurdari; in luoghi diversi si trova talvolta lamentu (lamento), termine
            che viene tuttavia più comunemente riferito ai canti che accompagnano le processioni
            “funebri” della Settimana Santa (cfr. supra). Pur nel variare delle storie personali e
            dei contesti, i nuclei tematici ed espressivi riscontrabili nella tradizione del lamento
            funebre euromediterraneo sono riconducibili a pochi tratti strutturali. Essi configurano
            il “viaggio” del morto verso una dimensione nella quale permangono abitudini ed esi-
            genze non estranee alla sua personalità da vivo, e in cui ci si aggrega alla diversa ma
            non meno “reale” comunità dei defunti. Non sono frequenti i richiami a personaggi
            sacri (santi, Madonna, Cristo), mentre costante è la rievocazione delle virtù del morto,
            di episodi lieti o tristi della sua vita, delle circostanze del decesso, della desolazione
            materiale ed emotiva in cui lascia il coniuge e i figli. In nessun caso emerge la rasse-
            gnazione, nella prospettiva di una felicità ultraterrena, presupposta dall’ideologia cat-
            tolica. Altrettanto stabili risultano le modalità esteriori del lamento, fondato su una
            serie di stereotipie mimiche (oscillare il busto, agitare un fazzoletto, compiere gesti
            autolesionistici) e vocali (dall’intonazione melodica al grido).
               In questo chiantu rilevato a Sortino un’anziana donna sviluppa un accorato dialogo
            con il marito scomparso qualche anno prima. Al defunto viene ripetutamente chiesto
            un ultimo incontro, un’ulteriore parola di conforto e di aiuto. La melodia si fonda su
            uno schema ricorrente, caratterizzato da tre suoni discendenti (re-si-sol) su cui ven-
            gono intonate le espressioni stereotipe ciatu meu (fiato mio) e amuri miu (amore mio),
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