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non avrebbero potuto fondersi. Dico un’ingiuria alla legge perché quel precetto vincolava la libertà che a tutte le Società è data dal diritto comune.
Nel 1881 la fusione fu fatta. Chi ne ha profittato? Non oserei dirvelo. Posso però assicurarvi che, se la fusione non si fosse fatta, la Rubattino sarebbe
morta. Forse la Società siciliana si sarebbe comperata la flotta del Rubattino a basso prezzo, come si era comperata a basso prezzo la flotta della
Trinacria [… ]»[1].
Sin qui le parole di Crispi.
In questa sua sintetica esposizione si richiamavano alcuni dati di fatto e frammenti di verità
unitamente ad alcune considerazioni sulla cui fondatezza nutro, invece, seri dubbi quali, ad
esempio, la presunta profonda avversione di Ignazio Florio all’ipotesi di fusione con la società
di Raffaele Rubattino. Non credo, infatti, che all’apparente ostilità di Florio corrispondessero il
suo effettivo convincimento e il suo reale interesse sulla questione, come cercherò di
spiegare.
È certamente vero che da una parte degli operatori commerciali e marittimi del capoluogo
siciliano l’operazione venisse guardata con sospetto e timore ma non così, per esempio, dalla
Camera di Commercio di Palermo, diversamente da quella genovese che, invece, manifestò la
propria assoluta contrarietà. L’atteggiamento diffidente, ma non ostile, di una parte del ceto
produttivo palermitano – soprattutto quello ancora legato al mondo dei velieri – si protrasse
anche dopo la costituzione della N.G.I.; il Giornale di Sicilia, ad esempio, trascurerà
l’avvenimento non per qualche giorno ma per diversi mesi, agevolato dal fatto che la nuova
grande Compagnia, la cui sede legale venne stabilita a Roma, si articolava su due
compartimenti dotati di larga autonomia operativa rispettivamente a Palermo e a Genova e
all’apparenza tutto sembrava essere rimasto immutato; persino la pubblicità sulla stampa
proseguirà come se nulla fosse accaduto, con la proposizione del logo e delle locandine dei
“Vapori postali I. e V. Florio” [2].
Eppure, sin dal 1861, allorché era stata costituita la società “Piroscafi Postali di Ignazio e
Vincenzo Florio e C.”, il fondatore Vincenzo Florio pensava a una grande flotta italiana,
essendo
«proiettato in una dimensione nazionale – come ha rilevato Orazio Cancila – e operava già in collegamento con alcuni dei più grandi capitalisti del
tempo (Carlo Bomprini, Domenico Balduino, Antonio Rossi e Felice Oneto) nel comitato promotore di una società, cui un disegno di legge del Ministero
della Marina Mercantile, poi non più approvato dal Parlamento, intendeva cedere il cantiere navale di S. Bartolomeo a La Spezia per la costruzione di
navi da guerra [… ]. Sulla opportunità della costituzione di un’unica Compagnia per i servizi sovvenzionati, egli (Vincenzo Florio) ritornò ancora, senza
successo, nel 1867, quando espresse alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla rivolta palermitana dell’anno precedente la convinzione che
fosse “giovevole che le tre società de’ Piroscafi si unissero in una sola”» [3].
Dopo la morte del senatore Florio sopraggiunta nel 1868, anche il figlio Ignazio fece proprio l’obiettivo paterno di mirare a una grande
società nazionale e non a caso prima che la concorrente compagnia “La Trinacria” dell’armatore palermitano Tagliavia, dotata di 13
piroscafi modernissimi, venisse dichiarata fallita per iniziativa del Banco di Sicilia, egli – come noto – aveva tentato di avviare un
processo di fusione tra le due società, già dall’agosto del 1875. Il 31 gennaio 1876, invece, il Banco di Sicilia deliberò di presentare
l’istanza di fallimento de “La Trinacria” che con questo istituto di credito era molto esposto.
Di conseguenza, con contratto del 25 giugno 1877, si pervenne all’atto formale della vendita dei 13 piroscafi a Florio, da parte dei
sindaci della fallita compagnia, per 9.454.000 lire pagabili in dieci rate. Già il mese prima, a trattativa definita, Ignazio Florio aveva
ritenuto doveroso ringraziare Crispi «per la parte che Ella ha preso in tutta questa pratica» (lettera del 15 maggio 1877) [4].
Come noto, Crispi in qualità di legale percepiva uno stipendio annuo di 6 mila lire non solo per predisporre i continui ricorsi nei
confronti del Fisco ma anche per «le tante incombenze che Florio affidava all’uomo