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Da Santa Caterina alla Colombaia di Giuseppe Romano

momento del concreto esercizio del potere giurisdizionale dal bajulo (o secreto o capitano di giustizia) e dal giudice
letterato.
Le dimore baronali erano fornite di varie specie di carceri, (delle quali fornisce un'accurata descrizione A. Italia in La
Sicilia feudale, Genova, Roma Napoli 1940) "il castello aveva due bagli, detti così dal latino vallum, cioè spazio
difeso da un fosso o muro, uno grande, ove abitavano gli uomini d'arme del barone, con le scuderie e le carceri per
lievi delitti, o per scontare i debiti, detto perciò civile, e quello per custodire i testimoni catturati immediatamente
dopo il delitto. (...) Nel secondo cortile, o baglio piccolo oltre all'abitazione del barone, sita nella parte maggiormente
fortificata, vi erano le carceri per i delitti più gravi e il reparto veniva detto "criminale".
Faceva parte del "criminale" la fossa, carcere riservato ai colpevoli di gravi delitti, umida come una cisterna di cui
aveva anche la forma (infatti quella di Marettimo, in origine, era una cisterna n.d.r.) e grande tanto da poter
contenere una ventina di persone.
Scavata nel masso, profonda una trentina di palmi (oltre 7 metri), priva di finestre o porte, riceveva la luce da un alto
spiraglio doppiamente ferrato (vedi lucernai del Bastione S.Anna n.d.r.) ed era tanto buia che, quando vi si scendeva
con scale mobili, era necessaria in pieno giorno, la lanterna.
Legati sotto le ascelle e sospesi a corde, i carcerati venivano calati nella fossa da un'apertura quadrata praticata sul
piano del baglio che, come una tomba, veniva chiusa da un massiccio blocco di pietra, avente al centro un anello di
ferro per la presa, detto balatone.
I carcerati vi stavano coi ferri ai piedi legati al ceppo, macerati dall'umidità, dalla mancanza d'aria e di luce, soffrendo
ogni patimento.
Queste segrete erano quanto di più formidabilmente feroce avesse ideato l'umana nequizia e non raramente
tornavano comode per liquidare chi dava fastidio ai detentori del potere. Nella fossa di Marettimo, languirono e
versarono lacrime o talvolta perirono tanti patrioti, oppositori del regime borbonico, tra i quali: il Generale Bassetti,
gli avvocati Nicolò Tucci e Nicola Ricciardi1, l'arciprete Vincenzo Guglielmi2, il tenente Ferdinando Aprile di
Caltagirone3, il Principe di Petrulla, Carmine Curzio4, Ferdinando Giannone5, Antonio Leipnecher, i sacerdoti Pietro
Gesualdo6, Fra Guglielmo da Mercogliano7, il padre cappuccino Antonio Brancato da Noto (condannato nel 1798 per
la sua propaganda repubblicana a languire per 15 anni nel forte di Marettimo) non pochi furono i frati e i sacerdoti
siciliani che stanchi di assistere alle continue vessazioni dei Borboni svolsero un ruolo significativo nelle lotte per
l'unità d'Italia.
Il sacerdote Gaetano Lucifero, Cesare Oliverio, Domenico Cerrelli, il marchese Francesco Saverio Lucifero,
Girolamo Asturi, Antonio Scarriglia8;

                                                   LE MEMORIE DI GUGLIELMO PEPE

Il detenuto più famoso in assoluto, ad essere imprigionato nell'orribile fossa, fu senz'altro il Generale Guglielmo
Pepe, una delle figure più generose e nobili del 1800.
Non ancora ventenne, reo di essere sospettato di cospirare contro la tirannia e l'oppressione di Re Ferdinando I° di
Borbone, veniva arrestato a Napoli, insiema al patriota Gaetano Rodinò e senza alcun processo viene condannato
all'Ergastolo e mandato ad espiare la pena nella tremenda fossa di Marettimo.
Nelle sue "Memorie", il Generale Pepe, parlando della sua prigionia in Marettimo, (la cui pronuncia in siciliano
"Maretimo" aveva anagrammato in "Morte Mia") scrive: " L'isola di Marettimo, collocata su vasto ed arido scoglio, è
posa dirimpetto alla città di Trapani, dalla quale dista solo 30 miglia. Nella punta dell'isola che forma una roccia
isolata, fu costruito un piccolo castello per avvertire, con segnali convenuti, la presenza di quei legni barbareschi che
da più secoli molestavano il mare e le spiagge delle Due Sicilie.
Sulla piattaforma del castello, esposto a settentrione, erasi scavato nel vivo della roccia una cisterna, la quale verso
la metà del XVII° secolo fu vuotata dell'acqua che conteneva, e convertita in prigione al fine di rinchiudervi un tristo
giovine, il quale aveva ucciso barbaramente suo padre, ma che per ragion dell'età troppo tenera non erasi potuto
condannare a morte.
Poscia servì di carcere perpetuo ad altri malfattori cui era stata fatta grazia della vita. E finalmente, nel 1799, sotto il
governo di Re Ferdinando, fu riputato Ergastolo ben adatto ai rei di Stato.
Il primo di costoro, ad esservi condotto, fu il Bassetti, generale della Repubblica Napolitana, il quale, condannato a
morte, denunziò la fuga progettata dai suoi compagni di carcere e per questa infamia, ottenne che la sua pena fosse
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