Page 4 - cartoline storiche
P. 4
ALESSANDRO SAMMATARO o VINCENZO SFERRUZZA
calcarenite da estrarre per file orizzontali dall'alto verso ~ basso, ma
richiedeva duri sacrifici di lavoro all'oscurità ed alla polvere, al di fuori
dello spazio e del tempo.
Le forme imposte a questi ambienti erano realizzate dall'uomo, ma
era la stessa pietra che lo guidava, con le sue venatura, i suoi nervi, i
suoi fossili; si avanzava sino a che la pietra si manteneva di buona
qualità, per subito interrompere il lavoro non appena si manifestavano
imperfezioni e ricominciare in un'altra direzione o ad un altro livello. La
saggezza del cavatore imponeva la forma delle volte, per garantire la
loro stabilità, stabiliva le dimensioni dei grossi pilastri, creando un
dedalo di cunicoli e di passaggi dalle forme bizzarre.
Gli arnesi utilizzati erano gli stessi sia fuori che al chiuso: "a man-
nara", un attrezzo munito di una punta sottile e di una larga tipo ascia,
di culla prima serviva per incidere i solchi e disegnare la fitta trama di
blocchi da estrarre, e la seconda per rifinire il blocco rendendolo per-
fettamente squadrato, "u zappuni", una zappa molto larga, che infilata
nei solchi veniva utilizzata per staccare Il singolo concio di tufo, "u
manganeddu", l'argano in legno per tirare In alto i blocchi.
L'operazione di tagliare il tufo, in dialetto "trincari", richiede occhio e
buona abilità; diviene subito un'arte, che modella pareti, pilastri, volte
degne di una cattedrale, qui e li costellate di ..scanneddi", piccole tac-
che che fungevano da scaletta per i movimenti dei "pirriaturi". Ma la
fatica non finiva lì, bisognava trasportare i conci estratti ai punti di
imbarco, detti "scari", dove scivoli in legno prima, e in muratura poi,
accompagnavano i conci sino sugli "schifazzi", imbarcazioni a vela e
remi che caricavano circa mille conci di tufo ciascuna; l'operazione di
carico, detta "getto del tufo" richiedeva buone dosi di forza fisica e di
abilità.
Man mano che l'attività estrattiva procedeva ci si allontanava dalla
costa, pertanto occorreva un continuo trasporto via terra, sia all'aper-
to che in grotta. fatto dai carrettieri, che si tiravano dietro a forza di
braccia su traballanti ma efficienti carretti di legno, carichi pesanti da
mattina a sera; il segno delle ruote di questi carretti è ancora eviden-
te nelle numerose carrettiere tagliate nel tufo che dalla costa si adden-
trano nell'entroterra. In grotta non sempre la zona di cavatura era
accessibile ai carretti pertanto molta parte del trasporto era fatto a
spalla, mentre in tempi moderni spuntano nelle cave più grandi i car-
relli su rotaia tipici delle miniere.
l blocchi, detti "cantuna·. avevano delle misure standard, unificate
dalla storia e dal passare dei secoli: la "misura antica", la più piccola
usata per le tramezzature (circa 17x17x34 cm), "u cantuni" (circa
25x25x50 cm) e la "chiappetta" (circa 30x25x50 cm) per i muri mae-
stri, la "chiappa" (circa 35x25x50 cm) per le fondazioni, "u buzzune"
(circa 25x25x75 cm) per le architravi. l segni sulle pareti e sulle volte
riproducono le diverse dimensione dei singoli conci estratti. Il lavoro
era pagato a cottimo in base ai conci estratti, ed ecco incise sulle pare-
ti le quantità estratte da ciascun pirrlature, per calcolare la meritata
paga e controllare il completamento del carico degli schifazzi.
L'intera Piana doveva brulicare come un formicaio all'epoca d'oro
del tufo, in cui una buona parte dei favignanesi trovavano sostenta-
mento nelle pirrere ed in tutte le attività connesse, mentre ora esse
giacciono silenziose ed abbandonate, un vero monumento alla fatica
umana. Ma mentre per quelle a cielo aperto Il riuso come giardino
viene quasi naturale, quelle "a pile~i~. cjpè in grotta, rimangono nasco-
ste alla vista, custodendo illoro· ségr.et~ il loro alto valore architettoni-
co, il gioco delle forme, i percorsi.bui e freschi, che ti portano sino all'e-
splosione di luci e colori non apperia si raggiunge lo sbocco a mare.
Il
•!l
l