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Da Santa Caterina alla Colombaia di Giuseppe Romano

indi fuggirsene, e noi mostrare di non aver presa parte a quel tentativo, qualunque ne fosse l'esito e, quindi, in grazia
della nostra apparente rassegnazione, ottenere carcere men duro nella Sicilia, ove la fuga poi sarebbe divenuta
agevole. Rodinò, che aveva dieci anni più di me, e presumeva altresì aver senno e scaltrezza maggiore, opinava che
dovessimo nascondere a que' forzati tutto il netto de' nostri pensieri, e dire anzi che saremmo con esso loro fuggiti,
per togliere così ogni sospetto di tradimento.
Al che io fermamente mi opposi, perch'essendo il governo inteso più ad imprigionare i rei di Stato, che non i
condannati per delitti comuni, que' galeotti avrebbero trovata la nostra compagnia più pericolosa che utile (…) quindi
risolvemmo di parlar con franchezza, promettendo segreto religioso, assistenza e denaro.
Capo di tutti i forzati al Castello non era più il medesimo ch'era dentro la fossa, ma sì bene un tale Sciaino, siciliano
di famiglia alquanto agiata, uomo coraggiosissimo e condannato a vita per i suoi delitti. Ma che non può la fortuna?
Essa fece allora assai più di quello che giammai noi avremmo osato sperare. La presa del castello era oltremodo
ardua e rischiosa.
Un solo colpo di moschetto avrebbe fatto immediatamente mettere in moto tutta l'isola, né quel comandante avrebbe
tardato a spedir tosto forze bastanti a riprender il forte, o pure stringerlo di assedio, essendo già appostata una
sentinella di là del ponte.
Era per ciò necessario, senza far minimo rumore, impadronirsene di sera. In quanto poi allo scender nell'isola
bisognava che si fosse trovato sulla spiaggia un battello da poterli traghettare in Sicilia, il che mi pareva un vero
sogno. Ma, i galeotti, confortati dalla speranza e tenaci nel conservare il segreto, osavano tutto perché non avevano
nulla da perdere (…) Il comandante del Castello, dedito al vino , e propenso a ricever doni da chi gliene poteva fare,
permetteva a tutti i trenta detenuti, tra forzati e rei di Stato, di girare per l'intero Castello. Ora un giorno sul far della
sera si fece in modo che i soldati del presidio, favignanesi ed ordinati a forma di milizie, si riducessero tutti in un
corridoio a bere vino stato ad essi regalato; e quivi furono tostamente da noi chiusi.
Il comandante fu preso dallo Sciaino, e le sentinelle fuori il ponte da due galeotti compagni di catena, quivi usciti col
pretesto di trasportarvi immondizie. Due altri galeotti assaltarono la sentinella sulla piattaforma presso alla campana.
Ed ecco in un baleno tutti i forzati armati di fucile presi nel corpo di guardia.
Costoro fecero scendere nella fossa il comandante, sua moglie e tutti quelli del presidio, ed anche noi due prigionieri
di Stato. A tutti posero indistintamente i ferri e per allontanare ogni sospetto di connivenza, tolsero a me un paio di
stivali e qualche vestito. E nell'atto ch'io li supplicava di usar più umanità verso il comandante, e di chiudere la moglie
almeno nelle proprie sue stanze, essi voltavansi verso di me minacciosi e sordi alle mie preghiere, come già era stato
fra noi convenuto. Ma, pertanto, alla scaltrezza siciliana non sfuggì né che Rodinò ed io eravamo stati gli autori di
quel fatto, né il motivo che ci aveva indotti a far eseguire quella fuga.
Dietro alla porta della fossa, che chiudevasi con un cancel di ferro, i galeotti gettarono quanto più legname poterono,
affinché, se fossero giunti que' del presidio a sferrarci, spendendovi tutta la notte, sarebbero riusciti appena la
mattina ad aprire la porta. Ciò fatto, essendo bene armati, recaronsi a notte avanzata ad una spiaggia lungi
dall'abitato, dove avevano innanzi sera veduta una barchetta, che colà sogliono chiamare lautello, e trovatola,
costrinsero que' marinari a trasportarli in Sicilia. (…) Giunti in Sicilia, si fecero seguire dai marinari del lautello affinchè
costoro non li denunziassero alla giustizia ed a' capitani d'arme che avevano il carico di sterminare i banditi.
Dopo scorsa lunga strada, il loro capo Sciaino commise il fallo di liberare i marinari, i quali andaron tosto ad avvertire
le autorità più vicine. I forzati già stanchi dal molto camminare, cui per la lunga prigionia erano divezzati, riposavansi,
placidamente in un campo, quando, assaltati all'improvviso da un capitano d'arme, tre rimasero morti, e gli altri furon
tutti ripresi, tranne lo Sciaino, il quale rifuggì in casa di un prete, donde gli riuscì ad imbarcarsi per Genova.
E passò di là a Milano ove, prese servizio da soldato, divenne sergente, poscia ufficiale nell'esercito di Murat;
bravissimo in guerra, e di savia e regolare condotta. Indicibile fu la meraviglia degli isolani della Favignana nel veder
la mattina le porte del castello spalancate, e noi chiusi dentro la fossa. Il governatore dell'isola pose in arresto il
comandante di Santa Caterina e tutti i soldati cui era confidata la guardia del presidio.
Noi prigionieri di Stato fummo ringraziati e ben trattati per la buona condotta tenuta in quella occorrenza, sebbene tutti
gli isolani e il comandante medesimo fossero internamente persuasi che quella evasione fosse frutto del nostro
consiglio. Fu in breve aperto in Trapani un processo contro il comandante del castello e gli ufficiali del presidio, e noi
prigionieri di Stato fummo trasferiti a Trapani in una torre (la Colombaia n.d.r.), che guarda il porto di quella città. (…)
La nostra prigione componevasi quivi di due stanze, ed eravam custoditi dal presidio con una guardia giornaliera,
comandata da un ufficiale sotto gli ordini del comandante del forte".
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