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Da Santa Caterina alla Colombaia di Giuseppe Romano

Camerata, Butani, Celle Bulgheria, Novi Velia, Vallo della Lucania, spesso accolto con simpatia da parte della
popolazione, mentre la sua soldatesca andava sempre più ingrossandosi. Al comune di Camerata, ad esempio, nel
luglio del 1862 i suoi militanti abbatterono gli stemmi reali, frantumarono il busto di Vittorio Emanuele II, lacerarono
una litografia di Garibaldi e strapparono tutte le carte affisse ai muri; tutto questo mentre due giovani sorelle, Anna
Teresa e Filomena Castelluccio, rispettivamente di 24 e 22 anni, calpestavano i resti del busto del sovrano savoiardo
gridando con rabbia: "ancora esisti?" e poi andarono incontro ai pochi liberali del paese gridando loro: "avete finito di
fottere". Nel suo primo "Proclama ai popoli delle due Sicilie" pubblicato a Butani il 3 luglio 1862, a cui seguì più tardi il
proclama di Campora, Giuseppe Tardio - che si qualificò come "Il Capitano Comandante l'armi Borboniche" -
scriveva: "Cittadini, il fazioso dispotismo del subalpino regime nel conquistare il Regno vi sedusse con proclami fallaci.
Amari frutti ne avete raccolti. Riducendo queste belle contrade a provincia, angariandovi di tributi, apportandovi
miseria e desolazione. Inaugurando il diritto alla fucilazione a ragione di Stato (del re Galantuomo!). I più arditi è
ormai da un anno da che brandirono le armi, e l'ora di fare l'ultimo sforzo è suonata. Non tardate punto ad armarvi, e
schieratevi sotto il vessillo del legittimo Sovrano Francesco II, unico simbolo e baluardo dei diritti dell'uomo e del
cittadino; nonché della prosperità commerciale e ricchezze dei popoli. Esiterete voi ad affrontare impavidi gli armati
Piemontesi, onde costringerli a valicare il Liri?".
E proprio a Campora, egli preparò nella notte tra il 3 e 4 giugno 1863, un altro "Proclama ai popoli delle due Sicilie:"
Cittadini, Voi che destinati foste dalla Provvidenza, a godere le delizie, che la natura, le scienze e le arti hanno
profuso a dovizia in questa parte Meridionale d'Italia, seconda valle dell'Eden. Ma da quasi un triennio di duro,
tirannico e fazioso dispotico regime subalpino, vi ha ridotto alla triste condizione dei barbari del settentrione del Medio
evo, riducendo queste contrade alla triste condizione di Provincia, disprezzando i vostri sinceri e pietosi atti di
religione, angariandovi di tributi …Insorgete a un grido e accorrete a schierarvi sotto il vessillo del vostro Augusto e
Legittimo Sovrano Francesco II, quale unico simbolo e baluardo pel rispetto della Religione, della sicurezza
personale, dell'inviolabilità della libertà, della proprietà, del domicilio e della pace e dell'onore delle famiglie, nonché
della proprietà commerciale e ricchezze dei popoli - Unico sia il vostro grido: viva Francesco II, l'indipendenza e
autonomia delle Due Sicilie!".
Con la presa di Roma del 20 settembre 1870, la libertà di Tardio e di altri rifugiati politici, cominciò a correre seri
pericoli. E fu infatti, proprio un suo paesano - Nicola Mazzei (che faceva il bersagliere a Roma) a denunziarlo e a farlo
arrestare per ben due volte, dopo che lo stesso Tardio era sfuggito la prima volta con uno stratagemma. Egli fu
arrestato insieme a Pietro Rubano, anch'egli di Piaggine, unitosi a lui nel dicembre del 1861, dopo aver fatto parte
della banda di Carmine Crocco Donatelli. Tardio e Rubano furono tradotti nel carcere di Roma, messi a disposizione
del Tribunale di Vallo della Lucania e successivamente trasferiti nel Carcere di Salerno.
Fu istituito il processo e Tardio nominò suo difensore l'avvocato Carmine Zottoli, del foro di Salerno e famoso
difensore di "briganti".
Il 24 maggio 1871 egli produsse una sua memoria difensiva, nella quale rispondeva per iscritto sui capi d'accusa: "Io
non sono colpevole di reati comuni poiché il mio stato, il mio carattere e la mia educazione non potevano mai fare di
me un volgare malfattore; io non mi mossi e non e non agii che con intendimenti e scopi meramente politici; talché non
si potrebbe chiamarmi responsabile di qualsivoglia reato comune che altri avesse per avventura perpetrato a mia
insaputa contro la espressiva mia volontà e contro il chiarissimo ed unico scopo per cui la banda era stata da me
radunata".
Il 23 giugno 1892, dopo una serie di ricorsi e dopo essere stato trasferito a scontare la sua pena (prima la condanna
a morte, poi trasformata in lavori forzati a vita) nel terribile carcere dell'isola di Favignana - dove i Borboni avevano
rinchiuso i loro avversari liberali e dove rimase segregato per 22 anni - Giuseppe Tardio, l'avvocato-brigante, si
spense all'età di 58anni, avvelenato da una donna per paura, pare, che facesse delle rivelazioni.
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