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Da Santa Caterina alla Colombaia di Giuseppe Romano
da alcune celle dell'ultimo piano, ammassando nelle restanti i detenuti sani; finchè lo scoppio puntuale di malattie
infettive non impose di ricavare ulteriori spazi per isolare quelli contagiosi. Il parlatorio veniva improvvisato, il giovedì e
la domenica, con i dovuti accorgimenti, in una stanza del primo piano. Le funzioni religiose venivano celebrate in un
corridoio, servendosi di un altare in legno, sistemato all'occorrenza. Le celle erano anguste ed erano pavimentate con
mattoni rossi d'argilla posati a "schiena di pesce" o con basole di pietra e ciò per rendere difficile ai detenuti lo
scavare per eventuali fughe. I cameroni dove dormivano i detenuti venivano denominati con i nomi dei santi: camerone
Sant'Alberto, San Francesco ecc. Nelle celle, il detenuto dormiva su dei rialzi realizzati in mattone, chiamati
"giucchene" sopra i quali veniva posta della paglia. La sistemazione del nuovo carcere avrebbe dovuto consentire ai
reclusi di condurre una esistenza più dignitosa, almeno dal punto di vista igienico, in quanto prima di ripopolarlo con
detenuti provenienti da altri istituti ove erano stati trasferiti durante i lavori, si provvide ad un'accurata disinfestazione
dell'immobile e a una pulizia straordinaria dei nuovi ospiti. Ma si trattò di un fatto eccezionale e transitorio; ben presto,
infatti, la struttura tornò a riempirsi di insetti nocivi, anche perché di nuovo utilizzato come reclusorio di transito per i
condannati provenienti pure da altre province e in attesa di essere trasferiti nei forti e nei bagni delle isole Egadi. Per
farsi un'idea delle condizioni inumane nelle quali vivevano detenuti e guardie all'epoca dei Borboni, basta leggere la
descrizione dei luoghi di pena trapanesi, fatta da un cronista negli anni '50, quando ancora sia la fortezza della
Colombaia, che il Centrale funzionavano a pieno regime, la prima con una forza di circa 270 detenuti, il secondo con
130 circa: "mura enormi ed umide, massicce, formanti cunicoli e celle maleodoranti, ove le anime espiatici non
sostengono più i corpi che perdono ogni giorno di più tutti gli attributi di esseri viventi e palpitanti. L'afflizione consuma
e distrugge. I servizi indecenti, l'impossibilità di un bagno e di usufruire persino di un normale gabinetto di decenza,
inoltre, abbrutiscono l'uomo più delle torture materiali". Un ambiente di seppelliti. Così, quindi, appaiono al cronista le
due carceri trapanesi, e aggiunge, l'allora direttore dr. Salvatore Damiani: ambienti angusti con 10, 15 e talvolta 20
detenuti ristretti per cella.