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Da Santa Caterina alla Colombaia di Giuseppe Romano

                    TRAPANI: CARCERI CENTRALI GIUDIZIARIE "SAN FRANCESCO"

In epoca borbonica, a Trapani erano in funzione quattro diverse strutture carcerarie: Le Grandi Prigioni Centrali,
destinate, come in tutte le città capovalle,1 a contenere i detenuti in attesa di giudizio o d'invio al destino definitivo; la
Colombaia, il Bagno di Sant'Anna e il Castello di Terra, luoghi di pena per i condannati ai lavori forzati o al carcere
duro. I problemi che affliggevano le quattro strutture erano analoghi a quelli di tutte le altre sparse per l'isola. Le
Prigioni Centrali trapanesi, successivamente meglio conosciute con il nome di Carceri Centrali di San Francesco
(dalla Via San Francesco d'Assisi, sulla quale si affaccia l'ingresso del carcere) erano ubicate in un vecchio stabile
che i padri Agostiniani - titolari di una rendita concessa dai baroni Ottavio e Michela de Bosco - avevano dato in
locazione, sin dal 1655, all'amministrazione municipale, che lo aveva appunto adattato a carcere. Poiché l'antico
edificio, angusto e cedevole, non rispondeva più alle esigenze del tempo e la sopravvivenza dei detenuti vi era
diventata pressoché impossibile, le autorità comunali pensarono di ristrutturarlo e, onde renderlo più spazioso
avevano provveduto all'acquisto e alla parziale demolizione di alcuni caseggiati circostanti. Nel 1820, per l'importo di
103 ducati, 58 grani e 75 centesimi, su progetto dell'architetto La Bruna, furono appaltati i lavori di riadattamento
delle Grandi Prigioni Centrali e alla fine dei lavori di riconversione e di sistemazione, ultimati poco prima del 1840, ne
venne fuori un edificio - isolato e circondato da strade più o meno ampie - il cui corpo centrale era rimasto intatto,
con una superficie di mq. 900, su tre elevazioni; sulla parte superiore della facciata d'ingresso vennero eretti quattro
imponenti telamoni.2 Al primo piano vennero sistemati gli uffici giudiziari, i locali per le guardie, i magazzini per il
deposito dei materiali, incluse le armi e le munizioni; e si ricavò un cortiletto di 200 mq., ove, a turno, venivano
condotti i detenuti per l'ora d'aria. Al secondo furono collocate le donne e i fanciulli; al terzo, per lungo tempo, si
rinchiusero gli uomini. L'edificio, che non corrispondeva affatto ai canoni delle moderne teorie penitenziarie,
accuratamente studiate e approfondite, proprio in quegli anni dal sociologo Filippo Volpicella3, per incarico di re
Ferdinando II - era fornito, in tutti i lati, di numerose anche se piccole finestre, tutte munite di una resistente grata di
ferro, ma mentre quelle del primo piano riservate agli uffici, avevano le sole inferriate, quelle dei due superiori erano
protette da una specie di gelosia, in modo da impedire quasi totalmente la visuale, e da evitare che i detenuti
potessero comunicare con il mondo esterno. Caratteristiche fortemente negative della struttura furono: la mancanza
di uno spazio attrezzato da infermeria; di una sala per i colloqui con i visitatori; di una cappella. All'insegna della più
totale approssimazione si cercò di ovviare a tali sviste. Quando se ne presentò la necessità, l'infermeria fu ricavata
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