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Alla fiera della memoria. Feste, identità locali e mercato culturale in Sicilia

nell’altro, manifestano la convinzione che la messa in mostra e l’offerta del pro-
prio patrimonio materiale e immateriale (anche riscoperto o inventato) possa at-
trarre numerosi fruitori esterni e, conseguentemente, possa costituire una risor-
sa di riscatto socio-economico affermando, al contempo, peculiari appartenenze
e particolari qualità del proprio saper fare comunità (Palumbo, 2003: 17 ss.). In
talune circostanze l’attenzione rivolta a determinate attività rituali, localmente
percepite come specifiche e qualificanti, sembra configurarsi come una strategia
di difesa simbolica rispetto a un’esteriorità omologante dalla quale ci si avverte
minacciati: la difesa delle proprie consuetudini, delle proprie tradizioni, segna-
tamente di quelle festive (stante la loro strutturale ripetitività e i loro contenuti
semantici a carattere prescrittivo), contribuisce, infatti, a dare ordine al tempo
e a perimetrare lo spazio della propria esistenza, a riempire di senso il proprio
vissuto1. In alcuni, non limitati, contesti si osservano, d’altra parte, un certo
compiacimento e una certa enfasi nel mostrare a chi viene dall’esterno il fascino
“esotico” delle proprie “speciali” tradizioni, del proprio (in realtà, più spesso,
per nulla specifico e unico) patrimonio, tanto che in certi casi sembra manifestar-
si l’esigenza di dover stupire lo “straniero” – oggi par excellence il turista – con
originalità radicali: lo straniero-turista si aspetta d’altronde che la Sicilia possa
offrire ancora qualcosa di un arcaico modo di vivere per poter essere degna di
essere visitata al di fuori dei consueti percorsi greco-romani e arabo-normanni.

    A complicare questi già tormentati e controversi processi, caratterizzati dal
susseguirsi di sempre nuove proposte, da veri e propri esperimenti ma anche da
ripensamenti nell’ottica del ritorno “all’antico” (quando non dal rimpianto per
aver inesorabilmente compromesso il proprio patrimonio offrendolo al mercato
e rimodulandolo a suo uso e consumo), si aggiungono precise dinamiche socio-
politiche: in primo luogo a livello della gestione delle risorse pubbliche dirette al
finanziamento delle manifestazioni tradizionali; in secondo luogo al livello della
manipolazione degli itinera festivi e dei correlati simboli rituali. Tra le più diffuse
strategie di ricerca e di conservazione del consenso da parte dei rappresentanti
politici “locali” (all’Assemblea regionale, alla Provincia, al Comune) v’è, infatti,
quella della distribuzione mirata (e pilotata) dei finanziamenti pubblici. D’altro
canto, la contesa per la gestione delle manifestazioni pubbliche (non solo, ma
soprattutto, di quelle a carattere religioso) da parte delle agencies locali (pro-loco,
comitati festa, confraternite, parrocchie, ecc.) rinnova e ridefinisce ogni anno,

1  «La cultura, nel senso pieno che questo termine ha assunto nella tradizione antropologica,
ha la funzione di dare significato alla realtà umana e sociale. Ora, poiché l’uomo, a differenza
di altri esseri viventi, vive immerso nel significato, la cultura è quanto gli permette di trovare
una risposta al problema dell’essere e dell’esistenza» (S. Latouche, Si può parlare di “glocalismo”
culturale?, in N. Scarpone (a cura di), op. cit., pp. 19-27: 21). Sui rischi insiti nell’oblio della pro-
pria memoria culturale cfr. L. M. Lombardi Satriani, Tradizione e innovazione: le classi subalterne
tra arcaicità e modernizzazione, in R. Botta, F. Castelli, B. Mantelli (a cura di), op. cit., pp. 43-53.

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