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Ignazio E. Buttitta

                  riconoscersi in valori comuni – la propria “identità” – fa ricorso al proprio
                  passato come risorsa da investire nel futuro, e assai di frequente al passato
                  folklorico, in cui più che altrove è possibile leggere i segni di una communi-
                  tas, anche un po’ mistificata e idillizzata, ma attiva come modello di riferi-
                  mento ideale possibile» (Clemente, 2001: 192).

    Oggi che la “mattanza” è venuta meno, che il totem comunitario è stato ar-
chiviato nel museo della memoria (Apolito, 1993), altri simboli sociali, le feste
“antiche” e “tradizionali”, cui nel passato era assegnata la funzione di fare e
rappresentare la comunità, rifondandola annualmente nelle sue partizioni e nei
suoi principi nel segno del sacro, sono investiti di nuove attenzioni e vedono
affermarsi alcune loro funzioni latenti (Bogatyrëv, 1982). Non a caso, accanto
a un generale rinnovato interesse per le feste del passato, particolari investi-
menti sono rivolti dall’Amministrazione comunale verso quelle che, per la loro
cadenza stagionale, possono meglio configurarsi come attrattori verso fruitori
esterni: il Carnevale, San Giuseppe, la Settimana Santa. Questi interventi dagli
esiti ancora piuttosto incerti, seppur condivisi in linea generale dalla comuni-
tà, hanno alimentato conflittualità tra le diverse realtà associative (molte delle
quali politicamente orientate) e di mestiere presenti sul territorio, e tra queste e
l’Amministrazione, rispetto ai ruoli che i singoli attori sociali dovevano detenere
e alle forme che questi interventi dovevano assumere. Tra gli esiti di questi pro-
cessi registriamo l’accelerazione del processo di desacralizzazione già avviatosi
negli anni Settanta in relazione al venir meno della stretta relazione tra attività
produttive e calendario cerimoniale e al progressivo disfacimento del tessuto
sociale (determinato anche dal trasferimento sulla terraferma, definitivo o sta-
gionale, di numerosi nuclei familiari).

    V.  Il caso favignanese è esemplare di processi diffusi e pervasivi: tanto del-
la interazione che intercorre costantemente tra cambiamento socio-economico
e espressioni rituali, quanto della reale incidenza e degli effetti delle retoriche
dell’identità locale e della memoria culturale, quanto delle politiche opache, in-
sipienti e autoreferenziali di riscoperta e di valorizzazione del patrimonio “di
tradizione”. Dietro l’apparente interesse per il patrimonio culturale tradizionale,
materiale e immateriale, si celano, infatti, interessi confliggenti e contraddittori.
Valorizzare le tradizioni significa per alcuni coglierne e esaltarne solo gli aspetti
utili alla promozione di una mediocre politica turistico-consumistica: una politi-
ca il cui fine ultimo è la creazione di “riserve indiane”, dove attori prezzolati do-
vrebbero trovarsi a recitare la parte dei commossi fedeli, degli operosi artigiani,
dei pii e laboriosi contadini, pescatori, pastori e quant’altro, a profitto del turista
di passaggio felice di “stupirsi” di usi e costumi “antichi” e “selvaggi”. Esecutori
non sempre consapevoli di tale “condanna allo stereotipo” sono pro-loco, enti
locali, istituzioni pubbliche e associazioni private.

    A soffrire maggiormente di questi interventi sono le feste religiose. Esse, al

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